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Il pericolo mortale è disancorarci dalla nostra civiltà

francesco lamendola Mar 17, 2023

Che accadrebbe a bordo di una grande aeronave spaziale diretta verso altri mondi, distanti dalla Terra decine o centinaia di anni luce? Mano a mano che si succedessero le nuove generazioni, gli abitanti del mezzo perderebbero il contatto, e ovviamente il ricordo, della civiltà terrestre, e si abituerebbero a considerare l’astronave come la loro patria: sarebbero, in un certo senso, dei “cittadini dello spazio”, vale a dire, in pratica, dei “cittadini del nulla”, poiché un’astronave non è, né potrà mai essere, o sostituire, una vera civiltà, ma è solamente un frammento di essa. Un frammento isolato ed alienato, perché, nel corso degli anni, la civiltà terrestre muterebbe in maniera tale che, se l’equipaggio decidesse di invertire la rotta, non riconoscerebbe più il pianeta Terra come il proprio luogo d’origine – e infatti, almeno i più giovani, avrebbero ogni motivo di non sentirlo affatto come tale.

Un luogo può essere detto “nostro” se risveglia dei ricordi, se è legato a delle esperienze, se fa appello  e smuove qualcosa che giace in fondo al nostro essere, perché lo riconosciamo. Noi siamo quello che siamo perché abbiamo coscienza, diretta o indiretta, esplicita o implicita, immediata o mediata, di ciò che siamo: il che equivale a sapere ciò che siamo stati, ciò a cui apparteniamo, ciò a cui siamo simili, ciò che ci ha modellati e ci ha permesso di formarci un’identità, vale a dire un modo di essere preciso e specifico, diverso da tutti gli altri ma, nello stesso tempo, simile a quello degli io che sono a noi più prossimi. Senza questa ancoraggio, senza questa radice, noi siamo come canne al vento; meglio: siamo nulla, esseri anonimi e intercambiabili, senza passato e quindi senza un baricentro – senza anima. L’anima è l’insieme delle esperienze, dei ricordi, dei legami affettivi, culturali, storici e psicologici che ci legano a un luogo e uno stile di vita; essere privi di queste cose significa non essere più umani.

Civiltà è umanità: chi perde il contatto con la propria civiltà, lo perde anche con la propria umanità e regredisce al livello di atomo sradicato, di meteorite errante nel vuoto. Diviene una maschera senza volto, un personaggio senza persona, un guscio vuoto: in altre parole, un perfetto barbaro, se barbarie è il contrario di civiltà e se il barbaro è colui che non possiede i connotati essenziali dell’umano. Un essere del genere fa paura, perché è capace di qualsiasi cosa, essendo privo di senso del limite: se umano è ciò che ha dei confini precisi, definiti dalla sua stessa umanità e se inumano, ossia mostruoso, è ciò che ignora o calpesta quei confini, ad esempio un figlio che uccide suo padre o sua madre, così, soltanto perché ha fretta di ereditare le loro sostanze: pur essendo destinato a riceverle, un giorno, appunto secondo le leggi umane. Barbarie è ciò che si addice a chi non rispetta i limiti dell’umano, a chi si spinge oltre; barbarie tecnologica, ad esempio, è voler ottenere dei figli dal seme di un morto o di uno sconosciuto, dopo averli impiantati in un utero artificiale o in un utero vivente in affitto.

E adesso torniamo alla situazione ipotizzata all’inizio, quella della navetta spaziale che viaggia nel corso di una missione a lunghissimo termine, a bordo della quale si succedono svariate generazioni di viaggiatori spaziali. Per chi nasce a bordo di essa, e non ha mai visto la Terra, né conserva alcuna memoria di essa, sarà impossibile sentire un legame particolare o una qualche attrazione emotiva nei confronti del Pianeta Azzurro; sarà impossibile sentirsi un “terrestre”, e dunque anche un “uomo” nel senso che noi attribuiamo a questo vocabolo.

Tale è lo scenario che l’astrofisico e divulgatore scientifico Paolo Maffei ha ben descritto in uno dei suoi fortunati libri di divulgazione astronomica (Al di là della luna, Milano, Mondadori, 1973, pp.301-302):

La fisica moderna afferma che nessun corpo, nessuna astronave, può superare la velocità della luce. Quindi, per raggiungere corpi celesti distanti decine o centinaia di anni luce, ammesso di aver costruito un mezzo per una tale impresa, si dovrebbero compiere viaggi lunghissimi e ricorrere a un equipaggio che si rinnoverebbe per diverse generazioni, che molto difficilmente riuscirebbe a mantenere o a riallacciare un legame con gli uomini rimasti sulla Terra. Bisognerebbe pensare che gli uomini e le donne delle generazioni successive alla prima, nati e vissuti sull’astronave, considererebbero quella e quella soltanto il loro mondo. Avrebbero la cultura terrestre di quando partì, di costumi, di sensazioni, stipati nell’astronave e un bagaglio di conoscenza, accumulati nello spazio fin dalla loro nascita o tramandati dai loro antenati, completamente nuove, inconcepibili per un terrestre. E anche la cultura terrestre, stivata nella loto astronave sotto forma di film e di nastri magnetici, che significato potrebbe avere per chi non è mai vissuto sulla Terra? Che senso avrebbe una veduta del Cervino o di un fiordo per chi non li ha mai visti se non come immagini alte un paio di metri? Quale poesia potrebbero trovare nel finale del primo atto di “Giulietta e Romeo” [sic] di Shakespeare gli abitanti dell’astronave che non hanno mai visto un’alba e per i quali l’allodola è un animale insignificante che conoscono appena dai microfilm di zoologia terrestre? Invece, contro i ricordi sempre più sbiaditi del mondo d’origine, si sovrapporrebbero esperienze e tradizioni nuove, attinte dagli spazi percorsi, dai nuovi mondi conosciuti, conseguenze di tragedie e di vittorie sofferte o conquistate da quella nuova umanità in miniatura.

Sono riflessioni condivisibili, anche se – dobbiamo dirlo – la nostra stima per Maffei è diminuita di molto allorché, leggendo la sua Cometa di Halley, un ricco volume nel quale si parla anche delle comete in generale, invano abbiano cercato e frugato alla ricerca della doverosa ammissione che Galilei, che delle comete si era specificamente occupato nel famoso Saggiatore, aveva sbagliato del tutto ritenendole illusioni ottiche, mentre aveva attaccato con feroce sarcasmo l’astronomo gesuita Orazio Grassi il quale invece ne aveva correttamente ipotizzato la natura di corpi solidi. Un fatto che non depone a favore dell’indipendenza di giudizio di uno scienziato il quale, come divulgatore, dovrebbe esporre in maniera imparziale la storia del pensiero scientifico, senza usare due pesi e due misure né fare sconti ai mostri sacri della cultura dominante in omaggio alle mode del politicamente corretto.

Ad ogni modo, la situazione descritta in questa pagina non deve essere proiettata, con l’immaginazione, in un futuro più o meno remoto, in vista di un programma di colonizzazione di altri mondi abitabili, magari a causa della sovrappopolazione della Terra (questa musica ce la fanno risuonare anche troppo negli  orecchi), ma va calata nel presente, come qualcosa che è già accaduto e che sta seguitando ad accadere sotto i nostri sguardi. L’equipaggio dell’astronave che viaggia da generazioni, allontanandosi sempre più dal pianeta d’origine, siamo noi. Siamo noi che abbiamo scordato, o stiamo scordando, la nostra civiltà, e non ci sentiamo più legati alle nostre radici, né alla memoria del passato dal quale proveniamo, né ai valori dei nostri avi, quelli che hanno sostenuto la vita delle generazioni che ci hanno preceduto. Siamo noi ad essere smarriti in uno spazio vuoto, in una terra di nessuno, leggeri, senza peso, senza ricordi, senza legami, sciolti da tutto ciò che ha fatto grande la nostra civiltà e ha dato un senso pieno alla vita dei nostri nonni, in parte anche a quella dei nostri genitori. Siamo noi che non ci sentiamo più legati al mondo di un tempo che pare già tanto lontano, mentre non pochi lo ricordiamo ancora come il tempo della loro infanzia; siamo noi, e specialmente i più giovani, a pensare solo in termini di futuro, a ragionare come se non avessimo più legami; e Dio, la famiglia e la patria fossero solo astrazioni, concetti obsoleti, residui di un modo d’esistenza che è consegnato agli archivi polverosi di epoche morte, non importa se da millenni o da qualche decennio. Per un adolescente di oggi, il mondo degli ani ’50 o ’60 del Novecento è remoto e inimmaginabile quanto quello dell’Egitto faraonico o dell’epoca ellenistica, proprio come per l’equipaggio della grande aeronave spaziale non fa alcuna differenza se la Terra è rimasta indietro di pochi milioni di chilometri o di numerosi anni luce. Per colui che è andato molto, molto oltre i confini abituali, e si è lasciato irrevocabilmente alle spalle il luogo di partenza, l’effetto prospettico rende simili tutte le distanze e le fa apparire tutte egualmente remote e, alla lettera, incommensurabili.

E se questo è vero – e basta confrontare il mondo di un bambino d’oggi, fatto di telefonini, computer e videogiochi, con quello di un bambino di cinquant’anni fa, quando bastava un cortile ghiaioso per giocare a “campana”, o un fazzoletto da afferrare al volo prima dei compagni, e la fiaba della buonanotte raccontata dal papà o dalla mamma, per convincersene - allora ne consegue che noi siamo i barbari, perché abbiamo perso la nostra civiltà, e con essa ci siamo spogliati di ciò che ci rende umani. Siamo divenuti simili a un uomo cui sia stato praticato un trapianto di cervello (o, se si preferisce l’ambito della magia nera, una sostituzione d’anime): siamo ancora noi stessi, o siamo divenuti qualcun altro? Qualcun altro, qualcos’altro abita in noi, e noi fingiamo ancora di essere ciò che eravamo, ciò che erano i nostri genitori e i nostri nonni? Siamo divenuti i clandestini, gli abusivi, gl’intrusi di noi stessi? Senza troppo scomodare Pirandello, abbiamo ceduto la nostra essenza in cambio della mera esistenza? Che cosa rappresentiamo, noi, in quanto persone: quali valori, quali credenze, quali certezze? Vi è ancora un sia pur minuscolo tratto di terreno solido sul quale poggiamo i piedi o siamo ormai totalmente librati nel vuoto, ne nulla? E soprattutto sappiamo ancora chi siamo?

Il mondo dal quale siamo partiti per un viaggio forse senza ritorno è il mondo della verità, o se si vuole – la differenza è percettibile solo sul piano teorico, non a livello pratico – il mondo della verità ritenuta certa, solida, sicura. Ora come ora non siamo più certi né sicuri di nulla: neppure di essere, o di voler essere, maschi o femmine. E siccome la nostra partenza da noi stessi, dal nostro mondo, non è avvenuta in maniera netta e brusca, ma è stata graduale e quasi insensibile, anche perché studiata tavolino dai Padroni Universali secondo la tecnica della “finestra di Oveton”, noi non ce ne siamo quasi accorti: siamo ormai a distanze siderali dalla base, ma molti di noi credono ancora di essere sulla Terra. In effetti, non siamo stati solo noi a cambiare, ma tutto il nostro mondo è stato cambiato intorno a noi, con velocità ed efficienza diabolica, così da darci l’impressione che tutto sia rimasto simile a prima, o meglio che vi siano stati, sì, numerosi mutamenti quantitativi, dovuti soprattutto alle innovazioni tecnologiche, ma non sostanziali, non tali cioè da incidere sulla stessa essenza del nostro essere. Inoltre non si è trattato di una partenza volontaria e pienamente consapevole, come quella dell’ipotetico equipaggio della grande astronave diretta verso un remoto pianeta della Galassia, bensì qualcuno ha deciso per noi e noi, sia pure con una qualche forma di tacito assenso (perché avremmo ben dovuto accorgerci della manovra, e far sentire alta e forte la nostra voce di protesta, o almeno d’interrogazione) siamo stati proiettati altrove, insieme a molte delle apparenze delle vecchie forme di vita, sicché l’illusione di una sostanziale continuità, e sia pure caratterizzata una costante, progressiva accelerazione verso il “progresso”, è stata a suo modo quasi perfetta.

Invece dobbiamo prendere atto che non c’è alcuna continuità: c’è stata una rottura, un drastico strappo e, nelle intenzioni dei registi, irreparabile: sono stati distrutti i ponti dietro a noi, e al tempo stesso sono stati avvelenati i pozzi, sicché nessuno che voglia conservare le precedenti forme di vita possa sopravvivere in quello che è diventato un deserto. Ma non era un deserto: era un giardino. Era pieno di vita: di piccoli commerci, piccole imprese, famiglia numerose, bambini che correvano e giocavano e facevano risuonare le loro voci allegre, al di sopra del rumore di fondo della modernità. Poi è passato il rullo compressore della globalizzazione, su un terreno già preparato da alcuni decenni di consumismo, di edonismo e di permissivismo ultra-individualista; mentre ora ci dicono e ci ripetono che son finiti i tempi del laissez-faire. Che bisogna rispettare le regole, gravare di meno sull’ambiente, controllare le nasciate (ancor di più?), mangiare insetti, tener spento il riscaldamento. E ci dicono, inoltre, che se faremo queste cose e ne accetteremo altre ancor più radicali, come rinunciare al posto di lavoro fisso, alla casa di proprietà, al risparmio, al denaro contante: se ci affideremo interamente alle istituzioni pubbliche, così sollecite del nostri bene da volerci sottoporre a strani trattamenti sanitari anche contro la nostra volontà, ma per tutelare la salute di tutti, si sa, alla fine non possiederemo più nulla e in compenso saremo liberi e felici. Strano contrordine rispetto a quanto ci è stato detto e ripetuto per anni, per decenni.

Si potrebbe obiettare che anche l’esperienza accumulata nel vuoto, a bordo di un’astronave, è civiltà e che a noi non sembra tale per un effetto prospettico; sarà. Ma gl’indizi non sono affatto rassicuranti.