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Dopo Diòniso e Cristo, verrà un terzo Redentore? Francesco Lamendola 18.02.2023

francesco lamendola miti redenzione teologia Feb 18, 2023

Sarebbe un discorso troppo ampio e difficile stabilire se l’umanità, nel suo insieme e in tutte le sue
popolazioni e civiltà, si strugga in un desiderio di redenzione; certamente ciò è vero per la nostra
civiltà, dai drammi si Sofocle a quelli di Shakespeare alle più recenti manifestazioni del teatro e
della letteratura, da Sei personaggi in cerca d’autore ad Aspettando Godot. Ma anche negli autori e
nei filosofi presso i quali meno ce lo si aspetterebbe, si trova questa sotterranea frenesia di
redenzione: redenzione dal passato, per esempio, con le sue colpe e i suoi rimorsi. Un caso per tutti,
quello del troppo frainteso Friedrich Nietzsche. Anche Kierkegaard ha scritto delle pagine
memorabili su tale argomento: è come se l’uomo occidentale, dopo il peccato originale e la caduta,
non avesse più ritrovato il proprio equilibrio e tutto ciò che fa – arte, guerra, religione, scoperte,
invenzioni, provvedimenti legislativi e sanitari – lo faccia per esorcizzare questo antico e
insopprimibile bisogno.
Ma redenzione da cosa, innanzitutto? Abbiamo accennato alla redenzione dal passato, cui Nietzsche
reagisce opponendo l’eterno ritorno dell’uguale: se ogni cosa ritorna puntualmente, fatalmente, e
nulla mai di nuovo appare sotto il sole, quanto meno possiamo considerarci redenti dall’ansia del
tempo che fugge. O forse no; ma l’illusione è quella, o le somiglia parecchio. È strano, però: la vita
è breve, fragile, continuamente minacciata: fin dagli antichi poemi babilonesi, Gilgamesh darebbe
qualsiasi cosa pur di strappare agli dei il segreto dell’immortalità; come mai allora sentire il bisogno
di redenzione da questo breve, tormentato e quasi sempre deludente lasso di tempo che viene
concesso agli uomini, insieme alle sue effimere e ingannevoli occasioni di gioia e di piacere?
Ragionando freddamente, verrebbe semmai da pensare che gli uomini siano tormentati dalla
impossibilità di redimersi dalla vita in quanto tale. È strano, infatti, che solo pochi filosofi ci
abbiano pensato: Schopenhauer, Moritz von Hartmann. In effetti, l’uomo moderno è come preso in
una morsa (Leopardi, Sartre): da un lato la vita gli appare un peso intollerabile, di cui vorrebbe
sbarazzarsi al più presto; al tempo stesso, però, pur con tutte le sue limitazioni e sofferenze, essa
continua a sedurlo, ed egli vorrebbe prolungare il più possibile la propria vita, in qualsiasi modo,
fosse anche d’un giorno solo.
D’altra parte, una volta voltate le spalle al cristianesimo, che una risposta e un senso glieli aveva
sempre dati, che cosa resta da fare all’uomo moderno, se non aggrapparsi all’idea di una redenzione
che venga da qualche nuova fede, o dalla bellezza creata dall’arte e dalla poesia, o dal superamento
dei conflitti interiori in un una “superiore” psicologia pacificata; oppure, ancora, in una scatenata
benché illusoria volontà di potenza? Sono, appunto, le redenzioni che hanno conquistato il cuore e
la mente di Hölderlin (la poesia), Jung (la psicologia che risana le anime), Nietzsche (la volontà di
potenza); guarda caso, tutti e tre tedeschi, cosa che suscita qualche domanda e merita un
approfondimento. Dei nuovi culti di redenzione e di salvezza, meglio non parlare: è merce talmente
pacchiana e dozzinale, che gli pseudo guru della California la vendono a qualche migliaio di dollari
sotto forma di corsi di consapevolezza spirituale per milionari. Sono per lo più l’equivalente
“civilizzato” dei culti del cargo della Melanesia, roba per individui che credono di avere un cervello
solo perché dispongono della tecnologia.
Nessuno dei tre si è accontentato di essere l’annunciatore generico della nuova redenzione
dell’umanità; ciascuno a suo mood si è sentito investito del compito divino di aprire la strada al
Redentore: Hölderlin con tutta la tragica serietà del poeta-vate; Nietzsche con la foga iconoclasta di
chi vuole anche liberare gli uomini dalla maledizione del cristianesimo: Jung con la sua flemma un
po’ arrogante e compassata di medico-professore che si pone al centro della sua piccola personale

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religione di salvezza dell’inconscio collettivo (cambiando a suo piacere, con l’intelligente paziente
Sabrina, le regole deontologiche della professione medica, ben supportato da Freud per l’occasione,
secondo le quali la prima cosa da non fare è, per l’analista, avere una relazione intima con le sue
pazienti). Dunque non solo tre profeti, ma tre autentici messia (asteniamoci dal citare il quarto e il
più lugubre, sempre tirato in ballo a proposito e sproposito, perché la sua sfera è quella prettamente
politica).
Resta comunque la domanda impertinente: perché tutti tedeschi, e nello spazio di neppure un
secolo? Si potrebbe pensare che la Germania, a differenza di Paesi già “arrivati” e unificati, come la
Francia e l’Inghilterra, era tuttora alla ricerca di un proprio centro unificatore spirituale. Soffriva,
per questo, di un complesso d’inferiorità non dichiarato, né riconosciuto. Per Hölderlin tale centro
sarebbe stato la rinascita dell’arte: il suo romanticismo coincideva con una vera e propria
rinascenza, che avrebbe dato all’ultima arrivata fra le nazioni la palma della nuova capofila. Ma
l’arte, per quanto sublime, può redimere una civiltà? In primo luogo, bisogna vedere da che cosa ci
si vuole redimere. Se si tratta, secondo il linguaggio comune, di scuotere una condizione di
sudditanza, qual è il nemico che tiene soggiogati gli uomini? Non basta rispondere: la bruttezza e la
mancanza di poesia. Primo, perché la maggioranza degli uomini, checché se ne dica, non ha e mai
avrà la sensibilità necessaria per trasformare la propria vita alla luce della bellezza. In secondo
luogo perché la bellezza è un valore, importante fin che s vuole, ma non è un ente, che divenga atto
di essere in maniera definitiva. È come un soffio di vento, un profumo che si espande e poi si
disperde. Non ha la propria ragion d’essere in se stessa, ma la riceve.
E chi ha questo potere, se non Dio? Perciò troviamo vera arte solo laddove c’è un’ispirazione
perfettamente religiosa. Sia in Hölderlin che nel suo tardo emulo musicale, Wagner, l’ispirazione
“pura” è frammista ad elementi ideologici che la inquinano, primo fra tutti l’idea del trionfo della
cultura germanica. L’arte non può redimere la vita, se non per brevi istanti e con fugaci visioni di
pace e di assoluto. Tanto meno può farlo la psicologia dell’inconscio, collettivo o individuale che
sia, e del resto neppure Jung era un pensatore abbastanza “puro”. Per essere i profeti e i redentori di
un’era nuova, bisogna essere di una purezza totale. Hölderlin e Nietzsche hanno bensì sfiorato tale
condizione, ma non era un volo cui bastassero penne umane: l’uomo non ha la facoltà di auto-
deificarsi. Se ci prova seriamente, con tutte le sue forze, perde il lume della ragione e il contatto con
la realtà: tragica esperienza che toccò ad entrambi.
Così si esprime il germanista Vincenzo Errante, a proposito delle velleità di Hölderlin, di veder
tornare l’èra degli dèi fra gli uomini, nel suo studio La lirica di Hölderlin (vol. 1, Firenze, Sansoni,
1943, pp. 93-95):
L’ellenismo di Hölderlin non è, come quello di Keats, fuga dalla realtà terrena in un sopramondo
ideale. Ma, anzi, un perpetuo accorrere verso la realtà terrena, con la volontà fattiva di
ellenicamente redimerla. L’Ellade, con tutto ciò che le sillabe di questo magico nome significano
nella storia dello spirito umano, non rappresenta per lui un paradigma di realtà storica distrutta
dietro le spalle, verso la quale sogguardare, in inerte contemplazione, col viso rivolto. L’Ellade è,
per Hölderlin, una realtà storica che fu. Ma che, tutt’ora assente, non si dimostra affatto
scomparsa. Che, anzi, tornerà ad essere, in un non lontano domani. Sorge innanzi agli occhi suoi,
per ciò, come una terra promessa, alla quale è certo l’approdo da una parte di un’umanità
naufraga, ma non ancora sommersa. È certo l’approdo, purché l’umanità voglia, e sappia,
rigenerarsi. Ma anche purché all’approdo vogliano, e sappiano, condurla i Poeti.
Questa fede eroica nella divina missione del Poeta, profeta e redentore, è l’imperativo categorico,
insistiamo, che arde al centro della personalità hölderliniana. Come un immenso impetuoso
braciere. Di qui prorompe, senza residui, l’energia del suo potenziale lirico. Spengete quel fuoco: e
avrete spento , alle scaturigini stesse, la poesia di Hölderlin. Che non è ebbrezza di estatico canto
solitario, soltanto. Ma, più spesso, bruciante ardore di sacerdozio umano, tra gli uomini fratelli.
Attività di sacerdozio, che in un primo tempo delimita perfino il proprio campo di azione entro i
termini dio un’ideale patria germanica, trascendente la storia contemporanea.

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La Terrasanta, destinata a reincarnare, nel mondo scaduto e corrotto, il reduce sogno dell’Ellade
perfettissima è, per Hölderlin, la Germania. Quella Germania che, politicamente ancora discissa ai
suoi tempi, in molteplici signorie centrifughe, costituiva già tuttavia una indissolubile unità
spirituale, nel fiorire in essa e per essa dell’ultimo in ordine di tempo dei Rinascimenti europei.
Hölderlin è l’inconsapevole araldo infatuato di questo prodigio: il prodigio di un’epoca d’oro nella
storia dello spirito umano, che tornava, proprio durante il dorso della sua cita, ad essere TEDESCA
nel mondo, dopo essere stata, attraverso i secoli, greca con L’Atene di Pericle, latina, con l’età di
Augusto; italiana, con la Firenze medicea; francese, con la Versailles del Re Sole; inglese, con la
Londra elisabettiana. Aedo inconsapevole, perché l’avvento di quell’epoca d’oro lo vaticinava in
un prossimo domani, senza avvedersi che già gli rifulgeva attorno: nel grande secolo, ormai al
proprio centro, della luminosa Rinascenza tedesca. Egli avverte che alla stirpe germanica spetta,
adesso, di assumersi in turno il compito di redentrice dell’umanità; e che, di conseguenza, al Poeta
germanico s’impone di guidar la propria stirpe in quel compito quasi divino.
Poi, in cerchi sempre più ampi, la veggenza di Hölderlin delira, con orgasmo visionario, m verso
prospettive anche più vaste e lontane. Il mito nazionale della Germania redenta e redentrice
trapassa e assurge al mito d’una nuova religione a venire. Una nuova grande èra si annunzia per
gli uomini: èra in cui, dopo Diòniso e dopo Cristo – araldi entrambi, vedemmo, dell’unico Iddio –
un terzo Redentore verrà: per ricondurre sulla terra la vivente presenza di quest’unico Iddio, da
troppo mai tempo scomparso nei cieli, lassù.
Siamo alla grande poesia degli ultimi inni orfici. Qui, il Poeta, al quale era riuscito di figgere lo
sguardo nell’al di là misterioso e terribile ove si prepara l’avvento dl nuovo Redentore, ravvisa in
se stesso il San Giovanni Battista del Cristo venturo. Colui che non aveva avuto unicamente da Dio
il compito di preannunziarlo: ma anche quello di preparargli, nel mondo, le vie.
In quest’ultimo immenso delirio visionario, Ma creduto con le forze di tutto quanto se stesso, la
ragione umana di Hölderlin naufragò, abbagliata da una troppo vivida luce.
La redenzione di cui ha bisogno l’uomo non va confusa con un nuovo stato di grazia (l’arte, il
superuomo), perché, in ogni caso, per redimere qualcuno bisogna anzitutto rimuovere ciò che
faceva ostacolo. E che cosa rappresenta l’ostacolo fondamentale alla pienezza e alla felicità
dell’uomo, se non il Peccato originale con le sue conseguenze? La Redenzione è un concetto
religioso e, per quanto si possa coltivare religiosamente la poesia (a proposito, anche lo
Zararathustra è assai più opera di poesia, e di bella poesia, che di pensiero filosofico: ecco perché
sbagliano il bersaglio quanti rimproverano Nietzsche di non fare della speculazione rigorosa), essa
non è tutt’uno con il Vero ed il Bene, che è Dio. Lo è la Bellezza: ma la bellezza prodotta dalla
poesia e dall’arte è una bellezza riflessa, come a suo modo osservava già Platone.
In breve: Dio solo può redimere l’uomo, e non un dio qualunque, non il dio dei teosofi, degli
antroposofi, degli spiritisti o delle false religioni; né il dio dei filosofi, costruito a tavolino secondo i
loro gusti e le loro necessità. La storia umana ha conosciuto un solo Redentore, ed è sempre a Lui
che l’uomo deve guardare, se vuole tirarsi fuori dalla palude nella quale si è invischiata, inseguendo
folli sogni di grandezza, di potere e persino di felicità. No, l’uomo non sarà mai felice se prima non
si riconcilia con se stesso, con le sue ferite, con i suoi rimorsi, con i suoi vani desideri di rivalsa: e
tale riconciliazione non viene da Diòniso o dal Superuomo, ma ancora e sempre da Gesù Cristo, il
Figlio di Dio che si è sacrificato volontariamente per amore degli uomini. Chi va in cerca di un altro
Redentore rifiuta per ciò stesso quello vero e indica agli uomini la via della menzogna, una via fatta
d’inganni, delusioni, amarezze senza fine, in fondo alla quale c’è il contrario della redenzione, ossia
l’inferno.
È forse un caso che sia Hölderlin, sia Nietzsche abbiano pagato con lunghi anni di tenebra mentale
l’impossibile scalata fino al Cielo, perché si erano illusi di poter compiere da soli, con le loro forze?
L’uomo deve accettare la differenza ontologica: è quello lo scoglio, lo scoglio della sua superbia,
che gl’impedisce di trovare pace e riposo presso Colui che dice: Venite a me, voi tutti che siete
affaticati e stanchi, e Io vi darò ristoro (Mt 11, 28-30).